Ex manicomio di Colorno







"Era il 1873 quando l’Amministrazione provinciale di Parma,
in seguito all’epidemia scoppiata in città, stabilì di trasferire provvisoriamente l’ospedale psichiatrico a Colorno, riadattando per l’occasione i locali dell’ex palazzo ducale e dell’ex convento di San Domenico. Passarono gli anni ma quella soluzione temporanea divenne sempre più definitiva, al punto che la parte posteriore della Reggia rimase adibita a manicomio della provincia fino alla sua chiusura. Una storia lunga un secolo e più, durante il quale l’inadeguatezza dei locali fu ribadita a più riprese senza produrre significativi cambiamenti né nella struttura né tantomeno nell’assistenza. Solo a metà degli anni sessanta iniziò una nuova fase. Una fase che vide Mario Tommasini impegnato in prima linea nel movimento che in quegli anni andava affermandosi e che avrebbe portato a trasformare il volto della psichiatria italiana.
Verso la fine degli anni sessanta, Parma fu al centro di dibattiti sulla psichiatria. Infermieri, operatori, lavoratori, insegnanti avevano aderito all’Associazione per la lotta contro le malattie mentali che, nata a Firenze, si proponeva di far conoscere gli orrori del manicomio. Fu organizzata una mostra fotografica in città che rappresentò un momento importante di informazione, anche perché era allora vietato fotografare i malati. Alcuni infermieri di Colorno, venuti a contatto con le nuove tendenze, cominciarono a rifiutare la brutalità dell’Ospedale Psichiatrico e durante uno sciopero sfilarono per le vie della città indossando la camicia di forza e mostrando alla gente gli strumenti di coercizione utilizzati sui degenti. Parma veniva così informata e coinvolta, veniva rivelata una realtà che pochi conoscevano. Sul finire del 1968 la contestazione studentesca raggiunse Colorno e un gruppo di universitari incontrò Mario Tommasini. Il 2 febbraio 1969, dopo un’assemblea a cui parteciparono studenti, amministratori, infermieri e parenti dei ricoverati, gli studenti presero possesso dell’ospedale psichiatrico e l’occupazione durò 35 giorni.
Di quel periodo Tommasini raccontava: “ …noi facevamo l’assemblea coi malati al mattino
e insieme organizzavamo la vita del manicomio. Sono stati gli unici trentacinque giorni in cui non si è ammazzato nessuno e nessuno è stato picchiato. Tutte le sere partivano dal manicomio decine di giovani con decine di malati a fare dibattiti nelle chiese, nelle fabbriche, all’università”.
I degenti si dichiararono a favore dell’occupazione e firmarono in blocco una mozione in cui chiedevano la partecipazione alla gestione dell’ospedale, il diritto di riunirsi in assemblea e di avere le porte aperte, la dimissione dei malati in buona salute, l’eliminazione della sveglia alle 6,
la possibilità di uscire durante la giornata. Il personale interno dell’ospedale assunse posizioni diverse tanto che un gruppo di infermieri controccupò per un paio d’ore l’ospedale.
La controccupazione, l’irruzione di un gruppo di neo-fascisti armati di spranghe e bombe molotov, gli attacchi della stampa a Tommasini e agli studenti determinarono la fine dell’occupazione. Sebbene non si possa affermare che l’opera di trasformazione dell’ospedale sia stata opera dell’occupazione, secondo Tommasini ne derivò il conseguimento di due importanti obiettivi:
“Fece conoscere a tutta l’Italia le condizioni dei malati di mente e fu la dimostrazione che i degenti potevano addirittura gestire il manicomio, visto che per 35 giorni
erano spariti metà degli infermieri e tutti i medici”. Dal 1970 cominciò una massiccia opera di dimissioni dall’Ospedale Psichiatrico, di malati che venivano inseriti nel mondo del lavoro. Gli ex internati vennero gradualmente inglobati in una società che, fino a poco tempo prima, ne aveva ignorato l’esistenza. Furono allestiti 250 appartamenti per i dimessi e l’amministrazione provinciale li sostenne con sussidi mensili. Anche altre persone, tra cui alcuni industriali vennero coinvolti economicamente. L’esperienza di Colorno fu la dimostrazione che per la diagnosi e la terapia di una malattia mentale è necessario spingersi oltre e cercare la persona nel malato. Si dimostrò poi che la malattia è parte del territorio e che per essere curata non deve essere strappata dal suo ambiente ma curata al suo interno.
Il 13 maggio 1978 veniva emanata la Legge 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” alla quale Basaglia come promotore ha dato il nome (Legge Basaglia).
Fu il provvedimento quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale e medica, basata sulle nuove concezioni psichiatriche, promosse e sperimentate in Italia da Franco Basaglia. Prima di allora i manicomi erano poco più che luoghi di contenimento fisico, dove si applicava ogni metodo di contenzione e pesanti terapie farmacologiche e invasive, o la terapia elettroconvulsivante. Le intenzioni della Legge 180 erano invece quelle di ridurre le terapie farmacologiche ed il contenimento fisico, instaurando rapporti umani rinnovati con il personale e la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità dei pazienti, seguiti e curati da ambulatori territoriali".

Testo tratto dal sito: www.mariotommasini.it